Due delle giornate più significative per il commercio di beni di largo consumo, Black Friday e Cyber Monday, sono appena terminate. I consumatori sono stati bombardati da super affari e offerte imperdibili, ogni settore ha registrato consensi sempre più crescenti e il comparto dalla moda ha ampiamente beneficiato di queste giornate di shopping sfrenato.
Comprare in saldo e fare un affare, serve davvero?
Di questi tempi il consumatore viene sempre più spinto all’acquisto da messaggi incalzanti che fanno parte delle regole dettate dal consumismo: si può acquistare a poco prezzo, con una vastissima scelta e, soprattutto, ricevere in pochissimo tempo ciò che si è comprato. Si tende quindi ad acquistare molto di più del necessario, in modo compulsivo e frettoloso senza forse provare a immaginare quali meccanismi sono celati dietro tutti questi iper–sconti. I paesi in via di sviluppo vengono utilizzati dal Fast Fashion per produrre in modo massivo e a basso costo, al fine di garantire grosse disponibilità di prodotti. Questa iperproduzione richiede per forza di cose lo sfruttamento delle risorse terrestri, in primis l’acqua, e le fibre vegetali “condite” da concimi chimici e antiparassitari per garantire la buona riuscita del raccolto. I procedimenti di fabbricazione dei tessuti fanno uso di coloranti a basso costo che molto spesso risultano tossici, di conseguenza anche gli stabilimenti di produzione sono altamente inquinanti. I danni alla persona e all’ambiente non vengono mai considerati, e dal momento che tutto ciò che avviene a decine di migliaia di km dai Paesi di commercializzazione, difficilmente i consumatori hanno una chiara percezione dell’impatto ambientale di questi prodotti. Se si considera anche il discorso dei resi merce il problema diventa ancora più grande: le aziende sono costrette a gettare tantissima merce, poiché l’ipotetico reso causato da un difetto di confezionamento o di colorazione di un capo di abbigliamento ha di norma un costo di riparazione tale da non giustificarne la reintroduzione sul mercato. Ogni anno quindi vengono prodotte grandi quantità di rifiuti che difficilmente verranno tutti riciclati.
Una questione di qualità
Alzi la mano chi ritiene che la qualità del vestiario sia rimasta uguale da 20 anni a questa parte! Chiunque si sarà accorto di quanto sia inferiore la durata della maggior parte dei capi di abbigliamento rispetto a 20 anni fa. La cultura consumistica dell’usa e getta riguarda tutti i beni di consumo, in particolare il Fast Fashion basa la sua ragione d’essere proprio su questo principio. Siamo quindi costretti a rinnovare frequentemente il nostro guardaroba, poiché spinti ad acquistare oltre il necessario capi che sono prodotti per durare poco. È molto difficile se non raro trovare un abito, una t-shirt oppure un paio di scarpe che abbiano più di qualche anno e che siano ancora in ottimo stato. La colpa però non è solo da imputare al modello Fast Fashion, ma è il risultato di ciò che alla fine chiede la maggior parte dei consumatori a chi produce, cioè prezzi bassi. Per soddisfare questa richiesta serve utilizzare materiali scadenti, che costino pochissimo! Vogliamo tutto, tanto e subito? Servono allora produzioni massicce e in tempi brevissimi, l’attenzione ai dettagli costa tempo e denaro. Non avrà più senso avere il diritto di lamentarsi, alla fine il mercato prende sempre la direzione che va incontro al cliente.
Qualcosa si muove
Alcune aziende del settore Fashion hanno compreso che l’iper–sfruttamento delle risorse terrestri alla fine non porterà a nulla di buono e a fronte di questo problema hanno già inserito nelle loro strategie future programmi per la produzione sostenibile, destinandovi ingenti risorse finanziarie. Se il futuro guarda alla sostenibilità con uno schema circolare, le realtà che non seguiranno questo principio, continuando a fare del basso costo il loro modello di business andranno incontro a problematiche sempre maggiori. Nonostante si percepisca un cambiamento molto graduale, il comparto moda si sta preparando a mutamenti radicali e sta investendo ampie risorse nella ricerca. A dire il vero il futuro è già realtà grazie a innovativi sistemi per la fabbricazione di fibre, molto differenti da quelli convenzionali. Nel precedente blog post dedicato all’imprenditoria femminile si era parlato della creatività, guardando a una produzione sostenibile, ed ecco che a questi concetti si unisce la ricerca di nuovi materiali.
Non meno importante è l’inversione di tendenza che sta prendendo piede tra la popolazione più giovane circa il rapporto qualità/prezzo. Negli ultimi anni si sta ritornando al concetto di corrispondere a un prezzo più alto una qualità migliore, e quindi una maggiore durata. Non è tutto: il voler riparare anziché gettare un capo di ottima fattura è un’abitudine che viene ripresa dopo tantissimo tempo. Se poi si considera il ritorno di un evergreen, ovvero l’acquisto di abiti usati, i segnali di una decisa virata sono evidenti.
Le nuove materie prime nascono dagli scarti
Se è vero che dalle bottiglie di plastica riciclate possiamo ottenere coperte e abbigliamento tecnico, anche dalle materie organiche di scarto delle lavorazioni, che poco hanno a che fare con l’universo tessile, si possono ricavare fibre massimizzando la sostenibilità. Unendo le possibilità di estrazione di fibre da materiali di scarto e il riciclo di sostanze come la plastica, l’economia diventa circolare e la produzione più sostenibile. Tanto per fare alcuni esempi è possibile estrarre fibre per produrre tessuti dagli scarti di lavorazione del latte, degli agrumi, e persino dalla vinaccia. Fatto interessante è anche che gli scarti di lavorazione per le aziende rappresentano un costo, dovuto allo smaltimento. In questo modo, quello che era un costo si trasforma in valore, poiché l’azienda alimentare può incrementare i margini e guadagnare sugli scarti senza più doversi preoccupare dello smaltimento. Per il settore alimentare le sostanze di scarto diventerebbero una risorsa preziosissima e la produzione di rifiuti scenderebbe considerevolmente. Ne beneficerebbero non solo le aziende e i clienti, ma anche l’economia in generale, che diventerebbe così più circolare: con materie prime derivate dagli scarti si ridurrebbero i costi di produzione per i capi di abbigliamento, sfruttando molto meno le risorse del pianeta.
Il riciclo: se ne parla ma c’è ancora molta strada da fare
Quando parliamo di riciclo ci vengono in mente principalmente carta, plastica e alluminio, ma sono numerosissimi i materiali che possono essere riciclati, tra i quali anche le fibre tessili, basta volerlo. Ridare vita a un capo è un concetto interessante, molte fibre sono infatti ancora in ottimo stato quando vengono destinate alla discarica. Il vero problema è modificare le proprie abitudini e iniziare a pensare in modo ecosostenibile. Inoltre anche a livello tecnologico non si è ancora analizzata a fondo la questione del riciclo di fibre tessili, anche se negli anni a venire la direttiva 2008/98/CE ci obbligherà, entro il 2025, a differenziare i tessuti così come già facciamo con la plastica, alluminio e la carta. Fra cinque anni faremmo bene a farci trovare pronti!